Viale delle Cascine 152/F, 56122 Pisa – Italia
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|inLo scenario migratorio nazionale registra al 1° Gennaio 2020 una presenza di stranieri regolari pari a 5.306.548 unità (8,8% della popolazione totale). Inoltre, secondo le stime della Caritas, sono circa 650.000 gli immigrati irregolari e/o clandestini.
Le ragioni per cui queste popolazioni si sono trasferite nel nostro paese indicano una forte tendenza all’inserimento stabile e sono prevalentemente due: il 41,6% per motivi di lavoro e il 48,6% per ricongiungimento familiare, seguiti da permessi collegati all'asilo e alla protezione internazionale, e da quelli per motivi di studio.
Attualmente poco più del 50% degli immigrati è costituito da donne (fonte: epicentro iss); queste sono generalmente giovani (più del 65% di età compresa tra i 19 e i 40 anni) e, quindi, in età riproduttiva.
Nonostante la loro provenienza sia molto varia e in prevalenza da paesi ad economia meno avanzata (27% dall’Europa dell’Est, 20% dall’Asia, 19% dall’Africa e 13% dall’America Latina), le donne immigrate non sono ancora considerate come soggetti autonomi nello studio della dinamica migratoria, ma piuttosto come figure secondarie alla migrazione maschile. La maggior parte di loro proviene dai paesi del sud-est del mondo, dove ogni anno 515.000 donne muoiono per cause correlate alla gravidanza e al parto e 10,6 milioni di bambini muoiono entro il primo anno di vita, di cui il 38% nelle prime quattro settimane.
Sappiamo che il significato di essere madre ed il valore della maternità hanno seguìto, specialmente negli ultimi 50 anni, percorsi assai diversi presso le donne e le comunità del mondo industrializzato rispetto a quelle dei paesi cosiddetti in via di sviluppo. Nelle società industriali avanzate di oggi, la maggior parte delle donne ha assunto costumi riproduttivi particolari, finalizzati al controllo delle nascite, e per alcune, non avere figli è diventata una scelta: la maternità non è più una conseguenza inevitabile del matrimonio o della convivenza.
In questa realtà, la donna si sente spesso come sotto un tiro incrociato: da una parte c’è la voglia di realizzazione personale, gli studi, la carriera. Dall’altra, permangono le continue sollecitazioni mediatiche e sociali sul ruolo di madre-moglie nell’accezione più tradizionale del termine. Talvolta la maternità viene affrontata quasi con uno “spirito professionale”, cercando di gestire tutto al meglio ma in realtà preoccupate di tornare ai “veri problemi” della vita, vivendo la gravidanza quasi come un’interruzione della “vita reale”.
Esiste così un abisso tra questa esperienza emotiva di maternità e quella di coloro che provengono da società di tipo tradizionale. Infatti, provenendo da un mondo in cui la maternità viene vissuta come un valore assoluto, risulta spesso difficile integrarsi nel mondo occidentale che, pur non negando in teoria il valore della maternità, lo subordina spesso al diritto della donna ad una sua scelta autonoma ed alla sua affermazione personale.
Per la quasi totalità delle donne immigrate da paesi non industrializzati, la maternità rappresenta un elemento essenziale della propria identità e della propria esistenza. Di conseguenza, le ansie rispetto alla maternità sono in primo luogo legate al timore di non poter procreare, e di non poter dunque svolgere il ruolo assegnato dalle società tradizionali, cioè quello di assicurare la riproduzione dei membri della comunità. Se la donna non assolve a questa funzione sociale, essa smarrisce l’identità e l'essenza della propria femminilità. Essere donna in queste realtà significa sostanzialmente essere madre.
Nell’immaginario di queste donne, non è previsto che una coppia scelga di non procreare, poiché tutte le rappresentazioni culturali presentano il ruolo della donna come quello di riproduttrice di vita. Inoltre per la donna immigrata, anche la pluri-natalità è un valore, e l'elevato numero di figli in una famiglia è espressione di ricchezza, mentre nel mondo occidentale tali valori non sono generalmente più riconosciuti.
Tutto ciò, crea spesso nella donna una sensazione di disagio sulla via dell'integrazione culturale con il paese ospitante. Essere immigrate in Italia comporta quindi una sorta di rivoluzione della propria identità di genere: le donne si trovano ad occuparsi di loro stesse e della propria famiglia con modalità che appaiono connotate più al maschile che al femminile, secondo i loro sistemi culturali di riferimento. Inoltre, alcune di loro sono costrette a rinunciare o a procrastinare il progetto riproduttivo, poiché essere madri appare incompatibile con la loro condizione di lavoratrice, e ciò può creare una lacerazione profonda nella propria concezione di essere donna ed incidere negativamente sul loro benessere psicofisico.
Un altro elemento che differenzia profondamente l’esperienza della maternità’ e del parto tra noi e coloro che provengono dal Sud e Sud-Est del mondo è che per queste donne, questi sono eventi assolutamente fisiologici, che coinvolgono l'intera famiglia allargata, comprese le donne della comunità. Nel paese straniero invece questa esperienza è vissuta in solitudine, assumendo quasi le caratteristiche di una patologia. Le esperienze di queste donne sono quindi quelle di persone in un nuovo paese, lontano dalle sicurezze e dai forti legami parentali, che pertanto vivono la maternità in solitudine, in una situazione fortemente medicalizzata e quindi per loro difficilmente comprensibile.
Del resto sappiamo che l’assistenza alla gravidanza è sostanzialmente una procedura di medicina preventiva ed essendo la prevenzione un lusso, risulta che nei ¾ del pianeta dove ogni minuto una donna muore per cause correlate alla gravidanza, questo concetto risulta essere pressoché sconosciuto. L'intimismo tradizionale del vissuto della maternità appartenente alla maggior parte delle donne immigrate, può trasformarsi, quindi, in un mutismo forzato, se gli operatori della salute non si sforzano di capire le esigenze di queste persone e a comunicare con loro al fine di coinvolgerle nel processo assistenziale. Il senso di inadeguatezza, il "vissuto di malato", la mancanza della famiglia allargata, aggravati dalle difficoltà di comprensione linguistiche e culturali, portano in genere la donna ad accedere con maggior difficoltà e diffidenza ai servizi.
Da qui, negli anni, abbiamo sentito la necessità di passare, nell’assistenza alle pazienti straniere, da un fase di emergenza alla strutturazione di percorsi che consentissero anche alle immigrate gli stessi standard di protezione e promozione della salute di cui godono le donne italiane.
Dal ‘94 ad oggi sono afferite presso la nostra struttura donne di 55 nazionalità in relazione alla realtà migratoria del nostro territorio. Sappiamo, da dati rilevati da alcuni studi condotti a livello nazionale, che il primo controllo in gravidanza per le immigrate avviene solitamente in epoca più tardiva rispetto alla media delle nostre connazionali, a causa della scarsa conoscenza dei servizi (consultori, ospedali, vie d'accesso alle prenotazioni, etc.), a problemi di trasporto, indisponibilità di tempo da parte del marito e talvolta a timori sulla propria sicurezza.
Conseguenza del ritardo della prima visita e dei primi accertamenti, soprattutto ecografici, risulta essere una maggiore difficoltà di datazione della gravidanza, dovuta anche al mancato ricordo dell'ultima mestruazione o alla possibile presenza di perdite simil-mestruali durante il 1° e 2° mese di gravidanza.
Nei paesi in via di sviluppo, la gravidanza, il parto ed il puerperio rappresentano tuttora uno dei maggiori momenti di rischio per la salute e per la vita della donna; questo si rispecchia anche nella realtà delle donne immigrate, le quali presentano fattori di rischio più elevati rispetto alla popolazione generale. Sono da segnalare in questo contesto la giovane età, la multiparità, una anemia di base, la frequente coesistenza di patologie genitali e, soprattutto, condizioni socio-economiche disagiate associate alla condizione di immigrata. Si spiegano su queste basi la più elevata percentuale (in rapporto alla popolazione locale) di complicanze al momento del parto, di parti prematuri, di tagli cesarei, di una maggiore nati-mortalità e basso peso alla nascita.
Sappiamo, da dati pubblicati dalla società italiana di pediatria nel 1999, che il rischio di mortalità e morbilità perinatale in Italia è significativamente più alto nei bambini stranieri, 16 per mille, rispetto all’8.3 degli autoctoni. Per quanto riguarda l’esito delle gravidanze seguite, purtroppo i dati sono abbastanza frammentari e questo rispecchia la maggior difficoltà nella gestione della paziente immigrata, oltre alle non poche difficoltà legate alla nostra possibilità di rilevamento dati, non avendo ne’ tempi (orario) né strumenti (operatori, sistema informatizzato) previsti per questo scopo.
Comunque per quanto riguarda l’incidenza di parti cesarei, le poche statistiche esistenti a livello nazionale non danno indicazioni univoche; diffusamente sembra esserci un minor ricorso rispetto alle italiane (l'Italia si colloca tra i primissimi posti al mondo per ricorso a tale pratica) ma con frequenza maggiore rispetto al proprio paese; certamente appaiono più frequenti le indicazioni legate all'urgenza (sofferenza fetale acuta, patologia del travaglio, complicanze legate all'infibulazione) rispetto ai cesarei programmati.
Ma quali sono state le nostre scelte rispetto alle modalità operative messe in atto in questi anni?
In primo luogo, abbiamo cercato di creare un ambiente accogliente in cui la donna si sentisse accettata e valorizzata nella propria dignità. Abbiamo attuato una modalità di counselling che facesse sentire queste donne prese in carico come “persone”, in modo da stabilire con loro una relazione di fiducia e collaborazione. La donna straniera non è solo espressione di una diversa cultura: è prima di tutto una persona con la sua individualità ed i suoi bisogni specifici, che proviene sì, da un altro mondo in cui i sistemi valoriali sono spesso profondamente diversi dai nostri, ma che proprio per questo necessita di una modalità di ascolto che sia in grado di leggere e decodificare la sua domanda.
Il rischio infatti è sempre quello di sperimentare l’incomunicabilità, non solo linguistica, ma anche quella che nasce dalla difficoltà che il paziente straniero, ma non solo, prova nel riconoscere ed esprimere i propri vissuti interiori. Col tempo abbiamo in realtà capito che le difficoltà linguistiche possono rappresentare uno scoglio ma anche una risorsa, se ci stimola ad enfatizzare la comunicazione non verbale con un atteggiamento empatico. In questo senso, il lavoro della mediatrice culturale, rappresenta una risorsa preziosa in quanto ha non solo il compito di traduttore linguistico, ma soprattutto quello di chiarire e contestualizzare all’operatore il significato di comportamenti e bisogni dell’utente straniera e, viceversa chiarire alla donna la logica e l’organizzazione dei servizi sanitari.
In questo modo, aiutando a superare le barriere linguistiche e culturali, la figura della mediatrice promuove anche un miglior utilizzo dei servizi, migliora la qualità delle prestazioni offerte e favorisce quindi l’integrazione sociale e culturale della popolazione immigrata nel nostro territorio. Nella nostra esperienza il lavoro di informazione e “accompagnamento”, volto a facilitare non solo l’accesso al consultorio ma anche quello alle strutture esterne (ospedale, ect), ha portato frutti positivi con il progressivo abbassamento dell’epoca alla prima visita e la continuità nei controlli successivi.